Translate

RACCONTI DI NERINA BUEMI

RACCONTI


Le memorie perdute, di Nerina Buemi







Col naso incollato al finestrino scrutava, attraverso l’oblò, i contorni sempre più nitidi di quell’isola che aveva abbandonato, da giovane, per andare alla ricerca di un futuro migliore. Era stato doloroso lasciare il suo paese, i suoi cari, gli amici e partire per quella città del Nord, avvolta perennemente in una coltre di nebbia, dove la gente viveva asserragliata in case comode e confortevoli, ma inaccessibili come una muraglia. I primi tempi pensava desolata alla sua casa, che si affacciava sulla piazza Municipio, piena fin dalle prime ore della giornata di voci e di schiamazzi, a volte anche di urli. Da essa tanti vicoli si dipanavano, come gomitoli, su per la Cattedrale, giù per la Chiesa di San Francesco, o verso Pollini, dove, dall’alto, si vedevano scintillare le acque del fiume, le cui sponde erano impreziosite da margheritine e dal “lippo” che i ragazzi andavano a raccogliere, nel periodo natalizio, per stenderlo come un tappeto ai piedi della Grotta del Salvatore. Poi gli anni, inesorabili, avevano cancellato a poco a poco i ricordi, avevano inghiottito gli affetti, i palpiti, le emozioni della sua fanciullezza. Chissà come avrebbe trascorso adesso quei pochi giorni! Non aveva più legami, tante persone a lei care erano ormai scomparse, altre erano emigrate ed inoltre lei aveva completamente tagliato fuori dalla sua nuova vita tutto ciò che faceva parte del suo passato, un passato privo di aspettative e di speranze. Attraverso i finestrini della macchina vedeva scorrere i campi assolati, di un verde abbagliante, gli alberi stracolmi di agrumi, i tronchi tozzi degli ulivi ed ogni tanto intravedeva le acque del mare, striate dai raggi rosati che accarezzavano le onde. Aveva viaggiato molto, apprezzato le meraviglie di innumerevoli Paesi, ma aveva dimenticato quanto fossero intensi e splendenti i colori della sua Terra. Arrivò a Patti tardi, era spossata, per cui andò a letto e si addormentò subito; nel sogno si ritrovò  bambina, un temporale tremendo si era abbattuto sulla sua casa, i fulmini illuminavano il buio della notte, mentre i tuoni rimbombavano nel suo cuoricino. La madre cercava invano di bloccare le vecchie imposte e di opporsi al furore del vento che sembrava volesse spazzare via anche le case signorili che si affacciavano sulla piazza. Quel vento non avrebbe portato via da lei la sua mamma adorata, per questo le manine le erano diventate rossastre a furia di stringere il lembo della sua gonna, cercò di stringersi a lei, ma il suo corpo diventava sempre più rarefatto, evanescente, l’uragano l’aveva portata via, inghiottita... Si svegliò con gli occhi gonfi di lacrime. Fece colazione e si preparò in fretta per tuffarsi nel mare delle memorie perdute. Uscendo il suo sguardo cadde sull’insegna “Sacra Famiglia”, eppure non aveva visto nessuna suora all’interno di quell’hotel; scese a precipizio gli scalini scivolosi e vide il vecchio portone dal quale usciva tutte le mattine col grembiulino rosa ed il cestino con la colazione e poi saliva disperata i gradini, lentamente, atterrita all’idea di stare con quelle donne strane dalle lunghe sottane, col capo ricoperto da un velo e  dall’espressione altera e distaccata; le facevano paura, non rassomigliavano a sua madre dal volto sempre triste ma pieno di dolcezza. Arrivata dinanzi al portale del Convento maestoso, si rannicchiava in un angolo, estraeva dal cestino la colazione, la divorava, dopo, piano piano, per fare scorrere il tempo, ritornava a casa, raccontando di avere trovato il portone chiuso. In fondo alla piazza le apparve il Palazzo Galvagno, dalle cui feritoie, da piccola, aveva visto luccicare gli occhi di fantasmi minacciosi e un vecchio, dall’aspetto altero, con una barba lunga e bianca come quella del mago Merlino. Quella era la piazza della sua infanzia, il cuore della vecchia cittadina dove i figli delle famiglie altolocate vivevano appartati e si pavoneggiavano sui tricicli, inseguiti dalle cameriere che li supplicavano di mangiare l’uovo alla coque. Gli altri ragazzi, quelli delle famiglie “normali”, li invidiavano ma si consolavano giocando dall’alba al tramonto, a gruppi, con le noccioline, a mosca cieca, con la corda o alla campana, saltellando su un percorso segnato a terra con un gessetto. 





Come era piccola adesso quella piazza che i suoi occhi infantili vedevano allora immensa e quale senso di abbandono proveniva da quei vicoli deserti, nei quali erano scomparsi il cicaleccio delle comari, le urla delle madri, gli schiamazzi dei bambini! Attraverso alcuni usci socchiusi vide brillare occhi neri su volti olivastri, le passarono accanto uomini e donne che parlavano una lingua incomprensibile, si rese conto che nel centro storico, ormai quasi abbandonato, vivevano soprattutto gli extracomunitari. Si affacciò alla ringhiera della piazza, da lassù la parte antica del paese sembrava un presepe, attorno al quale le nuove costruzioni si diramavano nelle più svariate direzioni. In alto, verso San Giovanni, la collina era ricoperta da grappoli di edifici nuovi e di villette, giù verso il mare erano scomparsi gli spazi verdi e gli orti e i giardini dai cui muri pendevano rami di gelsomino che inondavano le narici col loro profumo intenso ed inebriante. Patti era ormai congiunto alla Marina, più in fondo le acque del mare lambivano delicatamente il golfo arcuato e, in mezzo alle onde, la Pietra sembrava un leone stanco, con la testa ripiegata sul dorso. Strizzò gli occhi e le Isole Eolie le apparvero nitide, piene di mistero, perle preziose incastonate in quel manto azzurrino nel quale cielo e mare sembravano fondersi. Aveva dimenticato quanto fosse bello quel paese, sembrava un angolo di Paradiso, un Paradiso terrestre dove la natura trionfava sugli scempi prodotti da malsane colate di cemento che avevano ricoperto in modo dissennato alcune strade e abitazioni. Sul colle del Tindari i vetri del Santuario della Madonnina Nera, infuocati dal sole rovente, lanciavano riflessi multicolori. La sera quella piazza brulicava di vita, le parve di scorgere ancora il negozio delle sorelle Milone, dove troneggiava  un grande vaso pieno di caramelline sfuse; lei andava qualche volta, con la sorella, a comprarle e poi le scioglievano lentamente in bocca per trattenerne a lungo il sapore. Un pò più in giù scorse una porta, chiusa da un catenaccio, lì c’era l’osteria della Signora Rottino, che aveva un soprannome irripetibile; la sera alcuni uomini si riunivano per bere le “barbette” allungate con la gassosa e ogni tanto qualcuno usciva barcollando ed imprecando contro la malasorte che lo perseguitava fin dalla nascita, naturalmente erano pretesti per riconciliarsi con la propria coscienza, prima di volare tra le braccia di Bacco. Ancora più in giù una volta c’erano la bottega di frutta dei Gorgone e, accanto alla porta dei Giganti, il negozio di Don Saro “l’Americano”, come lo chiamavano gli abitanti della zona perchè aveva vissuto tanti anni in America. Il suo negozio straripava di ogni ben di Dio: provole, ricotte, mortadelle, salami... Inizialmente i ragazzini del quartiere avevano notato la difficoltà di Don Saro a fare calcoli con le lire, per cui correvano a frotte a comperare biscotti e caramelle, rifilandogli delle monetine false. Le tornò alla mente la Signora Genitori, il cui negozio era intasato da una miriade di cassetti polverosi dai quali penzolavano nastri, fiocchi, fili di lana; lei era la regina di quel caos, estraeva valanghe di bottoncini, di spilli, di aghi. Con pazienza certosina, col dito smuoveva quegli oggetti minuscoli fino a quando, trovata la merce richiesta, trionfante, la posava sul bancone  e poi la avvolgeva dentro pezzettini minuscoli di carta da giornale. Ritornò sui suoi passi e scese per la scalinata della pescheria dove i commercianti mettevano i pesci, ancora palpitanti di vita, in delle grandi ceste e gridavano con voce rauca: “Accattativi ‘u pisci!”, “Vennu sardi, acciughi, pisci spada!” “U beddu pisci friscu!”. Non le piacque quel restauro, le sembrava che avesse seppellito persino i palpiti dei pesci agonizzanti. Scese altri gradini, percorse un altro breve tratto di strada. Eccola là, la piazza San Nicola, cristallizzata nel tempo, con la Chiesa, la fontana! All’Oratorio andavano, a volte, per vedere la scatola magica che chiamavano televisore; appiccicati alle spalle della madre, speravano di riuscire ad entrare per seguire il programma di un curioso ometto che lanciava agli spettatori il suo immancabile “Allegria”; ma c’era da stare poco allegri quando la sala era piena, perchè la madre, in fila indiana, li riportava, mogi mogi, a casa. Entrò in punta di piedi nella Chiesa di San Nicola, si sedette su una panca e si rivide, bambina, atterrita al pensiero che il sacrestano li rimproverasse dinanzi ai fedeli e li facesse alzare all’impiedi, come faceva sempre, quando scopriva che non avevano i soldi per fare “l’offerta”. Finalmente arrivò nella piazza Marconi; il Milite instancabile teneva ancora in mano la spada, col braccio sollevato verso il cielo; ai suoi piedi i giovanotti lanciavano sguardi ardenti alle ragazze che, fingendo di non accorgersene, continuavano a chiacchierare con le amiche. A volte qualcuno, più spavaldo, si presentava con una scusa mentre le fanciulle cercavano di dissimulare l’imbarazzo che copriva le loro guance di rossore. Intorno a quel monumento si celebrava il rito del corteggiamento: se le ragazze passeggiavano in una direzione, i ragazzi giravano in senso inverso ed essendo i giri molto corti, gli incontri erano molteplici. Il Milite ignoto, assisteva ignaro ai molteplici amori che sbocciavano vicino a lui. Entrò al bar Marconi, prese un aperitivo; la giornata era luminosa e calda, ma un venticello leggero le sfiorava le guance per cui decise di continuare a camminare. Si avviò lentamente verso la via Trieste e passò dinanzi ad un edificio diroccato che un tempo era un cinema all’aperto. I ragazzi, non avendo i soldi per pagare il biglietto, avevano fatto ricorso al loro ingegno: si appollaiavano sui prati della collinetta di fronte al Cinema e, con la bocca spalancata, seguivano beati le avventure dei loro eroi. Ogni tanto qualcuno lanciava imprecazioni perchè, senza accorgersene, si era seduto su delle ortiche o vicino ad un cespuglio di more. Lo spasso durò fino a quando il proprietario, accortosi che il numero di coloro che compravano il biglietto si assottigliava, mentre la moltitudine di spettatori nella campagna aumentava, fece installare un faro che, puntato verso i prati, li accecava. Ancora pochi passi e sarebbe arrivata alla meta finale della sua passeggiata: il Canapè, un sedile di pietra a forma circolare dove i pattesi sedevano, beati, a prendere il fresco nelle soffocanti serate estive. Si accovacciò sulla scomoda panchina, con gli occhi serrati, poi li aprì pian piano per gustare lentamente l’incanto di quello scenario naturale in cui l’occhio, scivolando sul dolce declivio, si perdeva nel tripudio di riflessi scintillanti e giù, fino in fondo, dove le Isole Eolie inghirlandavano le acque marine. Spalancò gli occhi su un fabbricato che aveva inghiottito quell’angolo paradisiaco e le venne voglia di piangere, di gridare... ed allora capì che ogni monumento, ogni strada, ogni angolo del suo paese facevano parte di lei; aveva pensato di avere perso emozioni, sentimenti del suo passato, mentre nella parte più profonda del suo essere, la  memoria, come una corda di violino, non aveva mai smesso di vibrare...

Nessun commento:

Posta un commento